martedì 26 gennaio 2010

Due anni a Brussels



A mandarmi a Brussels è stato il destino. Ala un posto pubblico permanente nelle istituzioni europee non lo poteva certo rifiutare. Per me trovare impiego nel settore IT, ci avevano detto, non sarebbe stato troppo difficile. L'avventura spagnola volgeva gioco forza a compimento.

Di Brussels il giorno dell'arrivo non sapevo molto, forse a mala pena i cliché. Avevo i miei ricordi sbiaditi da turista, ma da turista di un posto ci si capisce sempre poco.
A dire il vero capita a molti. A Brussels quasi nessuno sogna di andarci. In genere si ambisce ad altri luoghi. Qui invece ci si arriva. Ce la si immagina mediocre centro amministrativo, neutro sottofondo delle alterne vicende dell'Europa.

Dopo due anni non sono in grado di dire se la città sia migliore o peggiore di altri posti. Le manca di sicuro il glamour di Londra, la grandeur di Parigi, la trasgressività di Amsterdam, la monumentalità di Roma.
Quello che so per certo però è che ha vinto il confronto con quanto da essa mi aspettassi. Del resto, un bicchiere mezzo pieno è manna dal cielo quando ci si attendeva di morire disidratati.
I vizi di Brussels sono conosciuti. Clima grigio, fisco esoso, burocrazia opprimente, micro criminalità poco rassicurante, tensioni etniche e sociali, etc .
Ma tanta molteplicità umana in un spazio urbano stretto e compatto, quella si è stata la sorpresa. Brussels è in Belgio, ma non è il Belgio. Decine di comunità nazionali di fatto convivono in un fazzoletto di terra (il luogo comune).

Brussels è un compromesso. Un compromesso tra le due etnie nazionali, tra francesi e tedeschi, tra le varie anime dell'Europa, tra mondo latino e mondo germanico. Tra cristiani ed islamici, tra marocchini ed algerini, tra turchi e curdi. Ma anche compromesso tra lasciare l'Italia e non lasciarla. La presenza italiana è così massiccia e strutturata che a volte ti sembra di avercelo a portata di mano il bel paese.
Non è un caso che nel momento in cui si é avuta la necessità di dover tenere insieme l'Europa si sia pensato ad un brussellese doc, Van Rompuy, l'eterno mediatore, l'uomo appunto dei compromessi.

Mi sembra di essere arrivato l'altro ieri. Si dice che col passare degli anni il tempo acceleri. Credo si tratti di una percezione dovuta alla maggiore nitidezza dei ricordi che l'età comporta. Quando si ragiona però in termini di eventi vissuti la prospettiva cambia. L'arrivo, il trasloco, la casa, il lavoro, la lingua, i posti visitati, le persone conosciute, la preparazione del nuovo trasloco dalle parti di piazza Expats (Ambiorix). Due anni misurati così iniziano a sembrare pochi.

Le probabilità che a Brussels possa, per forza di cose, finire per restarci a lungo sono alte. Le ragioni alla base di un nuovo trasferimento futuro dovrebbero essere molto valide. Di sicuro non un capriccio estemporaneo. Ci sono buone possibilità che oggi, due anni dopo l'arrivo, il decennio di vita nomade sia arrivato a conclusione.

Il che per certi versi è un bene. Sapere di dover restare sgombera il campo da quella sensazione di precarietà, che impedisce di investire nella propria permanenza. Inizia a valerne la pena di sforzarsi per apprenderne le lingue, e ce ne sono due. Le amicizie che si stringono hanno maggiori possibilità di divenire durature. Investire nell'acquisto del proprio alloggio diventa un'ipotesi ragionevole.

Non so se l'approdo a Brussels è l'ultima delle mie rivoluzioni esistenziali. Ne dubito. Vorrei però che i cambiamenti futuri avessero meno a che fare con il luogo in cui mi trovo, e più sulla vita che in quel luogo conduco. Del resto, dovunque si possono trovare ragioni di soddisfazione e ragioni d'insoddisfazione.
Sarebbe bello riuscire a disaccoppiare il lavoro che si fa dal luogo in cui ci si trova. Forse è utopia. Ma occupandomi di informatica, cioè quanto di più immateriale possa esistere, nell'era di internet, una maniera ci dovrà pur essere.
Chi vivrà vedrà.

domenica 17 gennaio 2010

Video - Bruxelles sotto la neve

Qualche giorno fa ho ripolverato la mia vecchia videocamera samsung.

Nevicava su Bruxelles e l'ambientazione mi era sembrata sufficientemente suggestiva per giustificare la messa in azione del su menzionato potentissimo mezzo. Buona visione

giovedì 14 gennaio 2010

Ancora qualche considerazione sui bamboccioni


Tanguy - comedie française ,
à 28 ans, il habite toujours chez ses parents.


Il bamboccione è percepito, credo giustamente, come una figura negativa. Ma restare nella casa dei genitori a determinate condizioni può anche essere una scelta da non demonizzare. Andiamo con ordine.

Mi ha colpito l'altro giorno una considerazione di mia madre. Voi non avete la percezione, mi ha detto, di quanto pesi sul bilancio familiare la presenza in casa di una o due persone in più. In termini di maggiore spesa, di bollette più care, di costi maggiorati.

Questo è un elemento dell'equazione che tende a sparire quando si parla di giovani e meno giovani che continuano a rimanere nell'abitazione della famiglia d'origine in quanto più economico. Certo, ma solo perché i nostri costi se li accolla qualcun altro.

Si discute spesso della pigrizia di una generazione, a detta di molti immatura, abituata a vivere nel benessere materiale al quale non intenderebbe rinunciare per emanciparsi. I cosiddetti bamboccioni, che per il loro approccio indolente ed immaturo si sono guadagnati molte critiche.
Hanno un atteggiamento predatorio nei confronti del tempo e delle risorse dei genitori, si dice. Mangiano e bevono gratis, consumano, trasformano le nonne in baby sitter. Si comportano come se disponessero degli anziani a loro piacimento. La permanenza sotto il tetto paterno così concepita diventa un innaturale prolungamento dell'adolescenza.

Il bamboccione è ormai l'eroe negativo dei nostri tempi. Condividere il tetto con i propri genitori non è però un crimine di per se.
E' dimostrato infatti che coabitare è più economico. In proporzione si risparmia su riscaldamento, elettricità, ci sono meno sprechi alimentari, si può in più persone condividere la stessa auto. Abitazioni più grandi costano in proporzione meno di quelle di taglia ridotta. A livello globale la presenza di famiglie più numerose riduce la domanda di alloggi spingendo in basso i prezzi.
Magari è questa la ragione della campagne martellanti dei media molto sensibili agli interessi delle lobbies immobiliari.

Il problema dei bamboccioni non è però la condivisione in se. Si può andare ad abitare con amici o estranei. La differenza è che amici o estranei non ti stirano le camice e non ti fanno il letto.
Ma se si utilizza l'alloggio paterno alla stregua di un luogo fisico dove ognuno è independente ed ognuno si fa carico di una equa fetta di incombenze domestiche, anche quelle finanziarie, allora il discorso cambia. A quel punto anche gli anziani iniziano a trarre giovamento dalla presenza delle persone più giovani. Beneficiano anch'essi della riduzione dei costi ed hanno qualcuno a cui lasciare il gatto quando vanno in vacanza. Non vedono la propria esistenza appesantita, ma semmai alleggerita, da incombenze, anche economiche, che di norma non gli spetterebbero più.

Io non sono partito per necessità, per la situazione italiana che comunque mi fa incazzare molto. L'avrei fatto comunque anche se fossi nato nel migliore dei posti possibili. Avrei comunque ritenuto inaccettabile il fatto di conoscere solo ed esclusivamente il luogo dove sono nato. Se qualcuno mi dovesse mai domandare un consiglio gli direi di partire, di scoprire il mondo, di sperimentare, di esplorare. Quanto prima. Se ho un rimpianto è quello di averci messo troppo per decidermi.

Però si deve essere in anche condizione di decidere di non farlo. Mai la scelta dovrebbe essere dettata da necessità.
Non riesco a digerire la retorica della flessibilità a senso unico, quando ti dicono che no, mica il lavoro puoi aspettare di trovarlo sotto casa, che bisogna essere pronti a spostarsi per lavorare.
I meridionali devono spostarsi al nord, gli italiani all'estero.
I bamboccioni sono criticabilissimi ma che le condizioni esterne siano oggettivamente sfavorevoli è un fatto su cui si glissa con disinvoltura. Precarietà, salari spazzatura, costo degli alloggi sproporzionati ai redditi, mancanza di un welfare orientato ai giovani.
E' bella la mediocrazia. Sta a fare le lodi sperticate di un sistema economico che produce tutto ciò ed al tempo stesso si accanisce contro tutte le forme di autodifesa messe in piedi da chi ne è vittima.

Per la cronaca il bamboccismo ormai è un fenomeno globale. Ce ne sono in Francia, ce sono in Giappone. E' infestato da bamboccioni con gli occhi a mandorla il Giappone. Con la disoccupazione al 10% anche gli Usa sono molto a rischio.
Se il fenomeno è così diffuso forse, viene da pensare, le cose sono più complesse di come vorrebbe la vulgata comune. Con buona pace degli immobiliaristi.

martedì 5 gennaio 2010

La fabbrica dell'infelicità


Oggi vorrei segnalare questo video "the story of stuff", dove si spiega perché il consumismo, oltre ad essere devastante per l'ecosistema, condanna all'infelicità coloro che lo praticano.

Annie Leopard, l'autrice, ci parla della material economy che in soli tre decenni ha dilapidato un terzo delle risorse della terra. Il 99% di quanto prodotto finisce in discarica nel giro di 6 mesi.

L'era d'oro del consumismo non è arrivata per caso, ci dice la Leopard. Nel dopo guerra per dare nuovo slancio all'economia si decise di fissare come proposito ultimo della società non garantire cure sanitarie, istruzione, trasporti sicuri, sostenibilità, giustizia..etc. ma la produzione di beni di consumo.
Si introdussero concetti quali obsolescenza programmata e obsolescenza percepita. La prima si riferisce al tempo minimo che un produttore deve far durare un bene senza che venga meno il desiderio del consumatore di acquistarne uno nuovo. La seconda serve per convincerci a gettar via cose perfettamente funzionanti o utilizzabili. Cambia il design in modo da rendere immediatamente visibile l'epoca dell'acquisto. Se indossiamo scarpe o giubbotti di tre anni fa tutti se ne accorgono all'istante.

Pubblicità e media hanno un ruolo essenziale in tutto ciò. Oggi si guarda più pubblicità in un anno di quanta se ne vedesse 50 anni fa nell'intera esistenza. Qual'è lo scopo della pubblicità se non quello di renderci infelici con quanto abbiamo? Ci viene detto che le nostre scarpe sono sbagliate, la nostra pelle è sbagliata, la nostra auto è sbagliata. Che noi siamo sbagliati e che il rimedio è nel fare shopping.
Negli Usa si consuma più che mai ma il livello di felicità è in costante diminuzione dal suo picco degli anni 50 in coincidenza con l'esplosione del consumismo. Abbiamo più cose ma meno tempo per quello che ci rende davvero felici, amici, famiglia, svago. Lavoriamo più che mai. Viviamo nell'epoca in cui si ha meno tempo libero dall'era feudale. E quali sono le attività prevalenti nel tempo libero? Guardare la TV e andare al centro commerciale. Si va a lavorare, magari si ha un secondo impiego, si ritorna a casa e ci si rimette davanti alla tv. E il Loop ricomincia.

Quanto ci dice la Leopard non è una sorpresa. Si sa quanto facile sia manipolare l'animo umano. In passato intere nazioni sono state convinte a gettarsi entusiasticamente in guerre catastrofiche, a ossanare i peggiori demagoghi, ad abbracciare i più bigotti dei credi religiosi.
Basti osservare la situazione italiana attuale. Il segreto del suo successo il nostro premier lo rivelò egli stesso quando consigliò ai suoi propagandisti di considerare l'elettore\consumatore medio alla stregua di un bambino di 11 anni nemmeno troppo intelligente.

Indirizzare comportamenti collettivi è cosa piuttosto agevole per chi ne ha capacità e mezzi.
Si espandono i bisogni a dismisura e si creano nuove esigenze. Ma ci si imbatte continuamente in limiti, che rimangono quelli di sempre. Le dimensioni del fisico, dello stomaco, delle giornate, dello spazio. Si possono comprare 10 paia di scarpe ma i piedi restano 2. Il più grosso dei limiti è però rappresentato dalla finitezza della vita umana. Nelle aziende si fa a gara a restare più a lungo in ufficio per compiacere i capi. Lo si fa per una promozione, per un aumento o semplicemente per sopravvivere. Ma una giornata in un loculo di fronte ad un monitor è un pezzo di capitale dell'esitenza che va via e che non ritorna. E' un libro che non si legge, un amico a cui non si parla, un film che non si guarda, un progetto che si abbandona.

Siamo dinanzi ad un dilemma apparente. Da una parte lo stile di vita dominante fatto di consumi e beni materiali ma anche di mutui, debiti e lunghe ore in ufficio. Dall'altro un approccio eco compatibile, quasi monastico fatto di privazioni. Una sorta di irrealistica traversata nella terra di utopia. Per lo meno così ci è stata raccontata.
Ora però il modello è entrato in crisi seppellito sotto una montagna di rifiuti e di debiti e forse non tutti mali vengono per nuocere.

Ascanio Celestini : un piccolo fornaio (Link a tema suggerito da Jack)